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Cambiare la narrazione personale per cambiare la narrazione culturale

Ogni soluzione ad un problema crea nuovi problemi Karl Raimund Popper

Mentre desideriamo grandi avventure, nuove emozioni, grandi palpitazioni, splendidi nuovi inizi, coesiste in noi la necessità di sicurezza, di punti di riferimento, di stabilità, di punti saldi che danno certezza.

Ci troviamo così in questo sali-scendi di frustrazione perché i due poli possono andare bene, ma difficilmente sono compatibili in ogni ambito.


Se pensiamo poi ai retroscena culturali di questa prospettiva, la faccenda assume tratti grotteschi e sconfortanti:

  • si ha bisogno di brividi, ma il sesso è ancora un tabù se associato alle donne;

  • si ricerca una libertà sia illimitata lamentandosi del fatto che “non si può più dire niente”, ma non si tollera che si legiferi per garantire questa libertà realmente per tutti;

  • si sognano grandi nuovi inizi, volendo però rimanere ben ancorati a tutto quello che ci circonda.


UN PREAMBOLO PSICOPATOLOGICO

Come ho spiegato nell’articolo sulla narrazione personale, il nostro cervello è programmato per “tenerci uniti” e quindi spesso crea ponti tra informazioni apparentemente inconciliabili per darci un senso di coerenza.


In psicopatologia esistono delle problematiche chiamate disturbi formali del pensiero. Sono disturbi molto gravi, quasi sempre associati a diagnosi come la schizofrenia, il disturbo psicotico o il disturbo delirante.

In sintesi, sono disturbi che coinvolgono principalmente 4 aree di funzionamento:

  1. Flusso: alterazione della velocità con cui si susseguono le idee, il blocco o il perseverare di uno o più pensieri;

  2. Forma: i pensieri non seguono più una logica coerente, non delineano un discorso fluido o non riescono ad esprimere il contenuto che la persona vorrebbe esplicitare;

  3. Possesso: furto, trasmissione o influenzamento dei pensieri da parte di terzi;

  4. Contenuto: i pensieri assumono forme bizzarre o si creano connessioni erronee che non seguono le regole della logica formale e non recedono davanti a realistiche obiezioni.


OLTRE LA PSICOPATOLOGIA

Mi chiedo se abbia ancora senso parlare di disturbi del pensiero solamente secondo parametri clinici.

Non potrebbe essere opportuno iniziare ad allargare questo costrutto considerandolo come una progressiva incapacità sociale di pensare in modi più complessi causata dalla necessità di semplicità e immediatezza?


Una doverosa precisazione per parlare del tema è che non tutto ciò che è complesso è difficile.

Pensare in termini complessi significa imparare ad osservare i diversi “strati” di un argomento non tenendo in considerazione solo quello più superficiale e immediato, ma andando a fondo e sviscerandoli.

Più che una difficoltà legata ai contenuti, questa modalità osservativa porta con sé la fatica di doversi soffermare sulle controversie che emergeranno tra le nuove informazioni e quelle già presenti nel nostro sistema.

La questione a questo punto si traduce anche in qualcosa di difficile sul piano personale perché diventa importante integrare le nuove riflessioni con quelle preesistenti. Fare ciò necessita di un cambiamento, superficiale o profondo che sia, e di una riorganizzazione della nostra narrazione su quel tema.


LA NARRAZIONE: INNATA O APPRESA?

La risposta qui è semplice e univoca: la narrazione è il frutto degli insegnamenti familiari e culturali in cui siamo nati e cresciuti.

Abbiamo imparato cosa e come dirlo grazie ai nostri genitori.

Abbiamo imparato non solo dalle frasi che ci vengono dette, ma dagli sguardi con cui si sono rivolti a noi, dai gesti con cui le persone si muovono nello spazio.

Abbiamo imparato dal verbale e dal non verbale degli adulti che ci circondavano anche quando li osservavamo da lontano, impegnati in interazioni che non ci coinvolgevano e di cui spesso non capivamo il significato.


Siamo stati esposti a milioni di informazioni che, fin dai primi secondi dalla nostra nascita ad oggi, hanno indirizzato la nostra esistenza verso valori, modalità di pensare e costrutti culturali che ci sembrano gli unici possibili.

Crescendo abbiamo poi avuto la possibilità di scegliere cosa tenerci stretto e cosa lasciar andare.

Siamo diventati adulti convinti che ciò che siamo e ciò che pensiamo sia frutto di scelte informate e coscienti e che tutto stia su un piano di consapevolezza ben chiaro.


Quel che si fatica a riconoscere è che quella visione familiare e culturale ci rimane addosso anche quando crediamo di averla superata e di esserci totalmente distanziati da lei, se non addirittura quando siamo convinti di averci fatto pace accettandola nonostante non ne condividiamo più i valori.

COME SI FA?

Mi capita spesso di ritrovarmi a delegare ad attivisti, politici o esperti il compito di cambiare ciò che non va bene.

Quando me ne accorgo provo a interrogarmi sulle mie azioni e provo a leggere dei saggi che parlino in modo approfondito del tema. Seguo quindi la strada per me più congeniale per ritagliami un’opinione a riguardo e creare piccoli spazi intorno a me per stimolare il confronto o il cambiamento all’interno dell’angolino di mondo in cui vivo.

È stato molto difficile farlo perché per riuscirci è fondamentale mettere in discussione parecchi dei concetti in cui crediamo, attivare una modalità riflessiva personale che permetta di identificare quando quello che affermiamo è “giusto” solo all’interno della nostra cornice (coerente con il sistema di valori che sposiamo e la nostra storia) o se lo è anche all’interno di altre cornici della società.

Imparare a leggere il modo in cui raccontiamo le nostre esperienze aiuta anche a prendere le distanze dallo spazio personale del “me” e a inoltrarsi nel difficile spazio del noi in cui i valori e le credenze personali sono lecite e valide finché non limitano i valori e le credenze altrui.


Riuscire a riconoscere dei limiti, degli stereotipi o dei pregiudizi nella nostra narrazione, risalendo alla radice di quei pensieri, è un primo enorme passo per porvi rimedio e poter contribuire attivamente al cambiamento di quella narrazione culturale semplicistica.

Riuscire a fare questo consente di conciliare gli opposti di un continuum creando nuovi modi di rappresentare i propri bisogni, contestualizzandoli e adattandoli alla sempre più evidente complessità sociale in cui siamo inseriti.

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