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Storie di un noi passato: come il contesto sociale si oppone al cambiamento individuale

Dove nasce un problema?

Come si mantiene?

Quando e come è possibile che quel pezzetto dolorante vada e venga?


Continuare a vedere il singolo come unico artefice del proprio destino è una chimera irraggiungibile.

Non solo perché ognuno di noi è inserito in una rete di legami strettamente interdipendenti, ma anche perché delega a ognuno la responsabilità del proprio malessere.

In questo approccio culturale assumiamo la forma di monadi sparpagliate in un mondo asettico che osserva il nostro crollo senza poter contribuire in positivo o aggravare le cose in negativo.


Per quanto sia doveroso sottolineare che, dall’età adulta in poi, dovremmo rassegnarci all’idea che non possiamo pretendere che siano gli altri a dover cambiare per stare meglio, non considerare il contesto sociale è folle e masochistico.


I PROBLEMI DI QUESTO APPROCCIO

Nel processo di introspezione e di cura, nella comprensione di sé, arriva un punto in cui ci si scontra con il mondo.

Quel mondo a volte, anche in modo totalmente inconsapevole, ha contribuito a creare quelle ferite. La rete sociale, proprio in quanto rete, reagisce a noi come noi reagiamo a lei.

Quando però in terapia iniziano i cambiamenti, può succedere che gli altri continuino a rimandarci un’immagine di noi che non esiste più, ma che vive nella loro mente attraverso storie che raccontano di un noi passato. Un noi acerbo, che tentava di sfuggire con ogni briciolo di forza da quei pezzetti di sofferenza mal definiti, ma velatamente percepiti e che quindi determinava emozioni e azioni che con la terapia spariscono ed evolvono in nuovi modelli.

È con quel mondo che si scontra chiunque esca da un percorso.

Non tenere conto di queste difficoltà sarebbe ingenuo, superficiale all’interno di un ambiente (quello terapeutico) che invece è estremamente complesso.

Non tenerne conto significherebbe esporre con una discreta dose di probabilità nel lungo termine la persona a sperimentare un vissuto di fallimento “inesistente”.


All’interno del percorso terapeutico fare ricorso a quel che si è imparato è estremamente faticoso. All’inizio potrebbe sembrare necessario agire “meccanicamente” e con estremo sforzo cognitivo per deviare il cammino verso un percorso che non è quello “preferenziale” ; pian piano però si arriverà a renderlo sempre più fluido e spontaneo, interiorizzandolo e integrandolo con il proprio vissuto.

Ma se all’improvviso in mezzo a questo percorso tutti coloro che ci circondano iniziassero, anche tacitamente, a rimandarci che “Tu funzioni in quest’altro modo!” “Tu non avresti mai fatto/detto/pensato così”, il contesto (genitor*, amic*, collegh*, fidanzat*) diventerebbe estremamente invalidante.

Questa possibilità rimanda feedback negativi su noi, su come agiamo e spesso su come siamo. Questo ci espone a vertiginose ricadute, a mettere in dubbio la nostre capacità di cambiare realmente, di poter vivere ed essere in modi diversi e più funzionali.


COSA FARE

Imparare a gestire i pezzetti interni, non può, in quest’ottica, essere l’unico obiettivo terapeutico!

Calarsi nella realtà in cui viviamo, tenere conto non solo di quello che da dentro ha determinato il malessere ma anche di quello che da fuori contribuisce a mantenerlo permette di sviluppare strategie e strumenti adatti e adattabili a fronteggiare anche tutti quegli elementi al di fuori di sé.


Purtroppo quello che si fatica a credere è che il mondo intorno a noi cambia quando cambiamo noi. E questo lo dico senza retorica alcuna!

È un dato di fatto: in una relazione a due, ognuno detiene il proprio 50% di influenza nel determinare ciò che avviene.

Se il proprio 50% cambia, la relazione non può più essere la stessa, non può più funzionare come prima.

Quindi si, è vero che davanti a un problema siamo gli unici a poter decidere e impegnarci per risolverlo, ma attenzione a non assumersi il 100% di responsabilità del proprio dolore e del proprio funzionamento.

Così facendo, siamo destinati al fallimento.

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